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A doppia mandata di Adriano Sofri Niente ha più forza in noi dell’abitudine: essa ci fa apparire naturale e immutabile ciò che è caduco e può essere già consumato e ci trattiene dall’interrogarci di nuovo. Occorre ogni tanto lo sguardo nuovo del bambino screanzato al passaggio dell’imperatore nudo. Io non sono un bambino, né ingenuo né malizioso: sono però un malcapitato, ed è dal fondo di questo infortunio che sono indotto a rifare la domanda. Perché sono rinchiusi a doppia mandata, i corpi dei detenuti, nello spazio stretto della cella? Perché la reclusione? La rifaccio tutti i giorni, la domanda: agli altri reclusi, e anche ai carcerieri e alle autorità in cui mi imbatto. La rifaccio qui anche a voi che leggete. Una parte della risposta è ovvia. Ci sono persone messe sotto chiave per impedire loro di far del male al prossimo e alla società. Risposta tanto ovvia quanto rara: si preferisce abbellire la cosa con frasi sulla rieducazione. Invece: ci sono persone che devono essere recluse fisicamente per garantirsi dalla loro persistente minaccia criminale. Si tratta di una piccola minoranza degli effettivi detenuti. In altri casi, perché la reclusione corporale metodica e soffocante su cui l’intera struttura carceraria è costruita? Ecco un’altra risposta in apparenza ovvia: per impedire che i detenuti evadano. Questa risposta è infondata. La grande maggioranza dei detenuti non minaccia alcun pericolo di fuga. In alcuni casi sono le circostanze stesse dell’ingresso in carcere a mostrarlo. Persone che si consegnano volontariamente, anche avendo la possibilità di vivere liberi altrove. In moltissimi altri casi, è l’adesione dei detenuti ai meccanismi progressivi di verifica della pena – permessi, riduzioni, semilibertà, affidamenti ecc. – a provare il disinteresse a fughe ed evasioni. Detenuti condannati escono e rientrano in carcere, sulla propria responsabilità. È noto che la quota di detenuti che abusa dei benefici legali per non fare ritorno in carcere è inferiore al 2 per cento, cifra minima. Nel carcere in cui mi trovo, se un terremoto o un tumulto dovessero far dileguare le guardie e scardinare i cancelli, il 90 per cento dei prigionieri resterebbe seduto ad aspettare il ritorno dell’ordine; un 10 per cento si lascerebbe tentare dall’occasione, andrebbe a fare un giro, e tornerebbe dentro, un po’ malfermo sulle gambe, la mattina dopo. Non sarà una fantasia allegra, ma è realistica, credetemi. Dunque non è per sventare evasioni che si sbatacchiano blindate e ferrate, e si battono mattina e sera doppie grate di sbarre alle finestre e si accendono le luci per la conta una quantità di volte ogni notte. Allora? Resta una risposta: per far soffrire i detenuti. La reclusione in gabbia e alla catena è sommo dolore e mortificazione per gli uomini come per gli altri animali. La galera è questa pena: non solo la privazione della libertà, ma questa sua misura stretta e schiacciante, questo sferragliare di chiavi, queste mani che sporgono dalle sbarre, questi visi affacciati agli sportelli. In castigo, come cani di padroni cattivi, come bambini di padri inflessibili. Questa spiegazione ha un pieno senso, ma è anticostituzionale, è illegale: è vietata. Persino se qualcuno volesse argomentarla nella forma edificante e sadica: è questa tormentosa penitenza la via alla rieducazione. Vietato. Allora perché una macchina così enorme improntata alla chiusura, alla stretta reclusione corporale? Non so. Però non lo sanno neanche le autorità e gli esperti che mi capita di interpellare. Non ci avevano pensato. La risposta più probabile è: perché si è sempre fatto così. Perché la prigione è questo. E anche perché, se si prende sul serio la domanda, c’è da mettersi le mani nei capelli di fronte al precipizio morale e materiale che si spalanca. Meglio restare al regolamento. Autorità ed esperti non se la sentono di rifarsi quella domanda. Alludono bensì ad essa, parlando di cose ragionevoli come le “pene alternative”, la “decarcerizzazione”, e simili. Credo che questa cauta moderazione sembri loro il modo migliore, e forse l’unico, di far dei passi in avanti. In realtà, questa cautela ha in se stessa il proprio limite, temo. Se non ci si reinterroga dalle radici sulla reclusione corporale, si rischia di impigliarsi in alternative tecniche e riduttive, dal braccialetto in là, e di non pensare all’universo di possibilità diverse che nel nostro tempo vengono offerte alla “risocializzazione” dai servizi civili, dai lavori utili e generosi, dalla buona volontà.
L’autore: Francesco Cocco è nato a Recanati nel 1960. Ha iniziato la sua carriera di fotografo nel 1989 raccontando i problemi sociali di chi vive ai margini della società. Nel 2002 ha iniziato il suo progetto sulle condizioni carcerarie in Italia, poi diventato un libro, Prisons (#logosedizioni). Nel 2003 Cocco entra in Contrasto. Dal 2003 collabora con MSF a un progetto pluriennale sull'immigrazione in Italia, recentemente pubblicato nel libro Nero (#logosedizioni). Nel 2006 è coinvolto nel progetto collettivo Beijing in and out, e nel 2007 lavora in Cambogia per Action Aid, reportage che entrerà a far parte del libro La ruota che gira (Edizioni Contrasto). Nel 2009 il suo lavoro sull’Afghanistan, girato in collaborazione con Emergency, lo ha portato tra i finalisti del Photoespana Ojodepez Human Values Award.
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